Da Sherlock a Dylan: come si ricostruisce un personaggio

C’è una cosa che più di tutto mi ha stupito di Sherlock, un’ottima miniserie inglese che consiglio a tutti di vedere: la fedeltà della trasposizione. Sherlock è ambientato nei giorni nostri, usa uno smartphone per comunicare, tanto per dirne una, e come il personaggio inventato da Arthur Conan Doyle è ossessionato dalla scienza della deduzione: quella particolare e forse anche patologica capacità di capire, da tanti piccoli particolari, la storia di una persona e di risolvere un importante caso investigativo.
Questa è l’anima di Sherlock Holmes: un uomo che vive di una cosa sola tanto da essere asessuato e sociopatico. A Sherlock non serve conoscere le persone per sapere come sono perché lo deduce dagli indizi. Gli sceneggiatori della serie quindi, tra di essi c’è anche il geniale Steven Moffat che lavora anche per la più famosa e longeva serie della BBC, Doctor Who, hanno deciso di partire proprio da questi presupposti: restare completamente fedeli allo spirito del personaggio e modificare, ammodernare e cambiare soltanto gli aspetti accessori.
Il nuovo Sherlock, interpretato magistralmente da Benedict Cumberbatch, ha anche un’altra cosa molto importante: il phisique du rôle, non quello “ufficiale” poco descritto da Conan Doyle (se non per il fatto che è alto e allampanato), ma quello fedele all’iconografia cinematografica: volto scavato, magro, alto e cappello da caccia. Benedict Cumberbatch è più giovane di quanto siamo abituati a vedere Sherlock al cinema, non veste come nell’800, sarebbe stato ridicolo se fosse stato così e soprattutto non usa quel ridicolo cappello con i copri-orecchi. In una serie colma di omaggi ai racconti di Doyle, non potevano sorvolare su questo particolare: infatti, il famoso cappello che vedete anche in foto e che ovviamente lui disprezza, verrà usato una volta soltanto per nascondersi proprio quando verrà assediato da numerosi giornalisti. Sherlock viene quindi immortalato così come lo conosciamo noi. Quelle foto crearono l’icona del nuovo Sherlock, così come il cinema per necessita di marketing ha creato un’icona solida e facilmente riconoscibile. Un piccolo omaggio alla storia di un personaggio che fa parte dell’immaginario collettivo e che, come sappiamo, ha ispirato anche Tiziano Sclavi per il suo Dylan Dog.
E’ così che avremmo voluto vedere Dylan Dog al cinema: un personaggio fedele ai canoni sclaviani, con le sue fobie e i suoi ideali, e non un manichino assolutamente fuori parte. Non parlo soltanto del phisique du rôle, quello cambia da disegnatore a disegnatore e proporre oggi Rupert Everett è un po’ azzardato, parlo di come gli sceneggiatore del film, Thomas Dean Donnelly e Joshua Oppenheimer, non siano stati in grado di cogliere la vera essenza del personaggio. Moffat e Mark Gattis, che nella serie interpreta Mycroft, prima di essere sceneggiatori di Sherlock ne sono fan. Hanno scoperto casualmente di avere questa passione in comune e hanno dato vita a questo progetto. Hanno sfidato e vinto, in termini di qualità di scrittura, anche il blockbuster hollywoodiano interpretato da Robert Downey Jr. e Jude Law.

E’ così, ripeto, che avremmo voluto il nostro Dylan: scritto da un vero appassionato, non da chi ha soltanto colto un opportunità di mercato. C’è tempo per un reloading della storia e per capire se qui in Italia abbiamo abbastanza risorse per imbarcarci in una produzione del genere, televisiva magari. Gli appassionati di Dyd credo che non manchino, manca la volontà di produrre qualcosa di buono. E vista la qualità degli sceneggiati portati in video dalla RAI e da Mediaset non ci conterei troppo.

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