Un giorno Spike Jonze e Charlie Kaufman decisero di scrivere un horror, evitando però tutti i luoghi comuni del genere, e qualunque parvenza di soprannaturale. Volevano parlare degli orrori (dell'orrore?) della vita reale, di tutto ciò che getta costantemente sulle nostre esistenze la sua ombra oscura, e che in linea di massima riusciamo a ignorare, perché altrimenti non avremmo più la forza di fare nulla: la malattia, il decadimento, la perdita del controllo, il rimpianto. Il risultato fu "Synecdoche, New York", uno dei film più belli e angoscianti del ventunesimo secolo (e il fatto che il protagonista sia Philip Seymour Hoffman, in retrospettiva, rende la visione ancora più difficile).
Questo per dire che "Eterne stagioni" è stata per me una storia emotivamente devastante: poetica, dolorosissima, e perdipiù disegnata splendidamente (i primi piani di Annabeth alle pagg. 53 e 55, ad esempio, sono di un'intensità straordinaria). Da una come la Barbato, che ha sempre dichiarato di non sopportare gli innamoramenti adolescenziali a scadenza programmata del primo Dylan, lo si poteva anche aspettare: una volta che fa innamorare
davvero il Nostro, l'addio della/all'amata diventa uno dei più strazianti della serie -tanto più dopo averlo visto quasi soccombere all'apatia, nelle prime pagine (a proposito: le didascalie, laconiche e melanconiche, sono intrise dallo spirito di Sclavi), reazione in fondo umanissima (e condivisa) di fronte alla prospettiva dell'annichilimento incombente.
Non sono solo le stagioni, a cambiare, ma anche le nostre paure (da cui il prologo di sopra). Qui non c'è sangue (... be', un po', ma non è quello l'importante), non ci sono mostri, ma è tutto ugualmente spaventoso. Perché è terrificante anche solo immaginare (figuriamoci saperlo) che da un momento all'altro si scivolerà nuovamente nella follia, che si è sul punto di perdere il controllo e diventare
qualcun altro -e l'orrore non è nella follia stessa, ma nella consapevolezza del suo inesorabile avvicinamento, nei brevi istanti che ne annunciano l'arrivo.
Rovesciando la fiaba (il riferimento esplicito a "Ladyhawke") ci si ritrova immersi nella tragedia: ai personaggi viene data la possibilità di scegliere, ma con la consapevolezza che ogni scelta condurrà alla distruzione. E la tavola finale è da brividi, una delle più belle e potenti che io ricordi su queste pagine.
Se non si fosse capito, per me è un capolavoro.
Un paio di notarelle per alleggerire il clima:
1) lo si era già intuito nel finale di "Il sangue della terra", ma vedendolo a pag. 43 si ha la conferma che Jenkins è uscito dallo stato semicatatonico in cui l'avevamo incontrato in quell'albo;
2) a pagina 7, altro
foreshadowing (come nei due numeri precedenti) del matrimonio, con Groucho che dice "Mi pare che un uomo e una donna siano le persone meno indicate per sposarsi"...