Hy, si rinnova la pubblicazione. In sti giorni, a chi frega, son stata male parecchio. Cosa che mi ha bloccata sulla pittura meno sulla scrittura.
" CAPITOLO UNO.
( Presso Bradford, Nord della Gran Bretagna, Giovedì 12 Febbraio 2015, quattro anni dopo Ore 01.08 Am )
Edith scese dal fuoristrada, prendendo una bella boccata d’aria. Il cielo era un tappeto di stelle, e la Luna brillava come un diamante pallido. Barcollò un poco, mentre la vista si annebbiava in modo distorto. La campagna era scura e profonda, alla stregua di un budello senza fondo. Il pozzo artesiano era stato coperto da una pesante lastra di acciaio, intorno alla quale erano cresciute alte erbacce spinose. I cavalletti erano sormontati da luci di color giallo, che si accendevano e spegnavano ed intermittenza. Questo le provocò una nausea anche più forte di quella che aveva sentito in auto. Cristo, quanto aveva bevuto! Almeno sei o sette Cuba libre, ed un Long Island. Si sfiorò i capelli rossi, avvertendo il gelo attraverso le scarpe da tennis. <...Edith....come va il buco ? > < Benone..fa solo un fottuto male del cazzo !! >, gridò. Stevens Sullivan, il suo ragazzo ufficiale da meno di una settimana, si sporse dal finestrino, cercando anch’egli sollievo dalla sbornia. Sapeva che Edith beveva di brutto. L’aveva conosciuta a Bredford, al pub del paese, e s’era ingrifato subito. Edith era una bella pupa, capelli rosso vivo, seno della terza misura, gambe lunghe e culetto sodo...un vero portento. Ma a Steve, era piaciuta per altri motivi: Primo il modo nel quale beveva, vale a dire ingollando pinte di lager senza difficoltà ed affrontando i cocktail più forti con assoluta padronanza. Poi c’erano anche la musica Heavy Metal, e i tatuaggi. Lei aveva dei tatto che erano un portento. Uno splendido drago colorato, che dal centro della schiena, scendeva sinuoso sino alle chiappe, assolutamente sode e dalla forma di due uova accostate strettamente. Poi un teschio tatuato sulla caviglia destra, ed una spada sulla spalla sinistra. In quei giorni, infine, si era decisa a marchiarsi a fondo, un pò come le mucche di pà, con un piercing alla lingua. Cazzo, quella cosa lo mandava in visibilio. Chissà come la muoveva, quella lingua...! In quei pochi giorni in cui si era messo con lei, Edith non aveva potuto usarla, la lingua, proprio per via del piercing, che s’era fatta fare in città. Lì era normale, per le fiche come lei, bucarsi la lingua. Del resto, ognuno deve fare parte del gruppo...dell’appartenenza. Non appena l’auto spense il motore, si udì, lieve ma distinto, il suono di un qualcosa di innaturale. Come quello di una lamiera, un pezzo di ferro pesante, che scivolasse sul terreno argilloso del campo. Ma chi poteva dire, fra i due, se era vero quello che stavano sentendo ? Edith, si era appena appoggiata ad una robusta quercia, e stava vomitando anche l’anima. Il piercing poteva forse darle problemi, con il vomito, ma che cazzo ci poteva fare ? Il Long Island l’aveva stesa del tutto. <...Steve....vieni fuori...> Faceva un freddo pungente, ma secco. L’atmosfera era percorsa da una densa elettricità statica, tanto che Steve aveva preso ben tre scosse, quella sera, guidando il Cherockee del padre. <...arrivo...cocca...> Rise. < Caro Steve...te la do, stasera...ciucca come sono...te la meriti, bello.......>, pensò. Altro rumore, questa volta molto più vicino. La vecchia fattoria ed il campo di mais, erano state abbandonate sul finire dell’estate del 2011, quando il nuovo proprietario, era stato trovato morto in casa sua. Una morte strana...strana davvero. Aveva un...una sorta di buco al centro del petto...cosparso di una densa e molliccia sostanza grigio verdastra... Comunque...adesso il posto tanto amato da “Cuore matto” era diventato il ritrovo per le coppiette del paese. Edith aveva perso la verginità all’età di 15 anni. Era stata una cosa straordinariamente rapida e squallida. Si era baciata in modo umido e disgustoso con un brufoloso irlandese di 4 anni più grande, di cui aveva dimenticato anche il nome, e l’avevano fatto lì, su quella terra florida. Avevano fatto sesso, quello da adulti, ed il suo fiotto di sangue l’era sceso dalle cosce, andando ad irrorare un dito di terra, e lei si era sempre domandata se quella cosa avesse una sorta di significato recondito. Niente di poetico. Era pieno di insetti, formiche per lo più, che l’erano rimaste addosso per giorni. Aveva temuto, per alcuni giorni, che quelle formiche fossero riuscite ad entrarle anche nel sesso. Sapeva che gli insetti a volte fanno di questi scherzi. Lo aveva visto in televisione. Per un paio di notti si era anche svegliata di soprassalto sicura di trovare delle formiche nel letto e fra le gambe. Poi la cosa era stata dimenticata del tutto, man mano che i giorni passavano e la paura per quella eventualità, aveva ceduto il passo alla consapevolezza piena di esser diventata donna. Vide barcollare Steve fuori dal mezzo, e sorrise. Si tolse il giubbotto in pelle, ficcandoselo dietro le spalle. Steve era buffo. La sua immagine si sfocava e si rimetteva a fuoco come attraverso l’obiettivo di un cattivo fotografo, ma era buffo così. Rise. <..sai Steve...ho proprio voglia, stasera...proprio tanta...> Bofonchiava con tono da ubriaca. Edith era prossima all’alcolismo, poiché beveva come una spugna dall’età di diciassette anni. Non si faceva, qualche canna ma nulla di serio, ma beveva di brutto. La birra era stata un’apripista per i super alcolici, e chissà quante volte aveva mandato a farsi fottere il reverendo Albert, che la vedeva rimettere l’anima a bordo della strada, la mattina presto. Il padre di Edith lavorava come ispettore geologo per la contea, e rimaneva fuori casa quasi cinque giorni su sette. A volte sei se le cose si mettevano male. Quando la Gran Bretagna fu scossa da una serie di alluvioni, nel 2004, lei non lo vide per quasi un mese intero. Sua madre era insegnante alla scuola dei Briston, che distava da Brendford 20 miglia. A volte si fermava con delle colleghe per diversi giorni durante la settimana, per risparmiare sul costo della benzina, e soprattutto quando c’erano gli scrutini ed il lavoro extra scolastico si accumulava. Quindi Edith era cresciuta da una certa età in avanti, da sola. Aveva sospettato, verso il 15 anni, che i suoi genitori non si amassero più e che rimanessero insieme solo per non turbare un ordine costituito, sebbene non ne avesse avuto alcuna conferma diretta. Mai sentiti litigare, mai sospettato di una scappatella o una storia da parte di uno dei due. Però era un sospetto abbastanza palpabile, che non abbisognava di alcuna conferma per esser creduto del tutto. Così, in quei lunghi e piovosi pomeriggi di noia della campagna inglese, in cui il tempo sembra cristallizzato e incapace di andare avanti come si dovrebbe, Edith aveva iniziato a bere qualche birra dal frigo di papà. Tanto a casa non ci stava quasi mai nessuno e comunque anche se ci fosse stato suo padre, era troppo intento ad elaborare grafici, studiare rocce e minerali dai nomi difficili e dimenticabili. La ciucca le era servita per vincere una sottile timidezza di fondo e aveva anche iniziato a farsi tatuare la pelle. La musica heavy, Iron Maiden sopra tutto, le era sempre piaciuta e da quel famoso pomeriggio di sbronza, era diventata la colonna sonora della sua vita. Adorava i testi feroci degli Iron, la violenza con cui la chitarra entrava nelle orecchie, i riferimenti blasfemi. La società era una struttura esile, di facciata come certe case nei film western, quelli americani, che dietro erano tenute su da assi di legno scricchiolanti e malferme. La società, la famiglia, il matrimonio…tutte facciate di case fittizie, inesistenti. Tanto valeva fottersene di quelle cose. Steve sorrise, in modo ebete. Era un ragazzo dinoccolato e magrissimo, a parte un accenno quasi tondo di pancia provocata dalla birra. Per lui, sin da bambino, il mondo si era diviso in due grossolane, ma abbastanza nette dimensioni: la propria e quella esterna. A Steve importava, naturalmente, solo della propria. Tutto ciò che vi stava al di fuori, amici, donne, scuola, lavoro, ogni cosa, era insignificante. Steve Sullivan era un ragazzo timido e insicuro, di intelligenza inferiore alla media, ma innocuo. Sebbene il suo interesse per il prossimo avrebbe potuto allertare qualche agente federale americano che intendesse tracciare il profilo di un possibile serial killer, egli era incapace di fare male a chiunque. Aveva sempre preso schiaffi, pugni, scherzi feroci da parte degli “amici” di scuola, per tutta la sua vita. Una volta, appena prima della fine dell’anno scolastico, lo trascinarono in un aula di ginnastica, naturalmente deserta, e gli appiccarono fuoco ai pantaloni con dell’alcool. Steve non aveva naturalmente aperto bocca con i professori né con la segreteria e tanto meno con gli agenti della polizia di Brendford su chi fosse stato a provocargli ustioni di primo e anche di secondo grado su quasi tutte le gambe. E non per una forma esagerata e rozza di onore e rispetto. Quanto perché intimamente convinto che a chiunque altro, nel resto del mondo che si snodava a perdifiato fuori dalle mura domestiche, non sarebbe importato poi molto di risolvere pienamente la faccenda. E forse, in quello specifico discorso, aveva anche una dose massiccia di ragione. Tre dei suoi aguzzini, paradossalmente, presero a portargli rispetto e ammirazione, divenendo realmente suoi amici. Il solo ritrovo che potevano conoscere e permettersi, era il pub, caldo, fumoso, e colmo di birre e musica anglosassone e metal. Steve reggeva bene gli alcolici, al limite li sfogava con una pisciata accanto ad un albero, o nel caso più aggressivo, vomitando tutto al ciglio della strada. Al pub, le prime apparizioni di Edith erano scivolate via senza lasciare traccia. Solo verso il finire dell’estate e l’avvicinarsi cupo e minaccioso dell’inverno, Edith era…mutata. Aveva preso a vestirsi metal in modo pesante, il tattoo che prima appena si vedeva, era cresciuto e diventato dettagliato e colorato, la gonna era divenuta molto corta e jeans strappati. Anche sulle chiappe. Così, una sera, una di quelle sere sempre uguali nei piccoli paesi della Gran Bretagna, quando fuori la nebbia copre il cielo come una coperta pesante e malsana, si era seduto accanto a lei, fissandole i capelli rossi e la bocca carnosa, per tanto, troppo tempo. Edith O’Bredy ricambiava fugacemente, appena socchiudendo gli occhioni espressivi, assolutamente certa di averlo fra le mani come una pera succosa, cascata dalla pianta. Si erano baciati totalmente ubriachi alla fine della serata. Un bacio tenero, insolitamente privo dell’uso della lingua. Dopo due giorni lei scriveva il suo nome sul diario. Steve ricevette un sms sul suo cellulare la sera di martedì. Edith gli comunicava che sarebbe andata in città, tornando entro pochi giorni, promettendogli una sorpresa. Quando si erano rivisti, lei lo aveva abbracciato, stringendolo con forza e non appena si erano staccati, aveva fatto una lunga boccaccia ficcando la lingua di fuori. Vi troneggiava una palla di acciaio grossa come un acino d’uva americana, ancora impastata di tintura di iodio. Lui aveva riso e le aveva accarezzato i capelli. < Mi voglio anestetizzare…>, aveva farfugliato. E avevano quindi preso a bere di brutto, come liberandosi di ogni inibizione ad ogni sorsata di birra e ad ogni cocktail. Poi erano barcollati fuori e lui l’aveva fatta salire in macchina, per proteggerla dal freddo umido di quella serata. L’autoradio diffondeva musica Metal, altissima. Non udirono che un fruscio. Steve la spinse contro la quercia, sollevandole il maglione cucito dalle mani artritiche di mamma, e ne scoprì il seno morbido e sodo. Si chinò, sussurrandole qualcosa d’osceno e Edith rise ancora. Accarezzò i suoi capelli corvini, ed all’improvviso udì una vibrazione. L’albero parve dondolare un poco, e qualche foglia si staccò, planando a terra in cerchi irregolari. <..aspetta...hai sentito ? >, domandò lei, mentre Steve la morsicava con i baci, appena sopra i capezzoli. Edith ebbe la netta impressione che il terreno franasse ai suoi pedi e che le radici della quercia si fossero spostate dalla sede naturale. <..è un terremoto ? > < Sei tu il mio terremoto, amore...> La sollevò, prendendola per i fianchi. Edith incrociò le gambe, serrandolo nella propria morsa, ridendo, ora convinta che fosse stato tutto un sogno. Era l’alcool, che la faceva sognare così...senza dubbio. Sentiva la sua erezione, dura e decisa, contro il proprio pube. <..wow...sei proprio eccitato...vero ? > Un nuovo tremorio, stavolta simile ad un risucchio d’acqua. Edith trattenne a stento un grido, mentre Steve rotolò a terra scivolando. Il terreno...gli mancò il terreno sotto ai piedi d’improvviso, come si fosse aperto un crepaccio. Ma non era una normale fenditura. Aveva l’aspetto di un imbuto conico, a cerchi concentrici, colmo di fango, nel quale i due ragazzi presero a scivolare senza nessuna possibilità d’appiglio. Adesso Edith urlò con tutte le forze, quando, giunta alla fine dell’imbuto, a circa sette metri di profondità, in una sorta di conca molliccia, vide spuntare una sagoma umanoide. Era alta, massiccia, mastodontica. Emanava un puzzo di decomposizione e terra fresca. Fra le mani qualcosa. Una falce, forse. Steve era supino, tremante, impazzito dalla paura. < …Cuori miei…>, gracchiò una voce orrenda, mostruosa, non umana. La musica si perse nel cielo terso, mentre la spaccatura si richiudeva. "
_________________ " Il locale è triste e sta sempre qua ! "
" Dylan Dog è arrivato allo scontrino fiscale "
Oriana Fallaci ti amo.
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