Cravenroad7

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 Oggetto del messaggio: Dylan Dog. Il cuore della terra.
MessaggioInviato: mar nov 04, 2014 10:18 am 
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Ok...si parte con questa cosa di Dylan, che non ha motivi di lucro, non vuole violare nessun copyright, e altro.
Diciamo che le idee la Strega le ha, vediamo che ne esce fuori.
Commenti e osservazioni gradite.




PROLOGO.

(Contea di Brendford, Nord della Gran Bretagna )


Il sentiero sembrava perdersi fra le fila alte e sonnolente del granturco.
Era di terra battuta, con una striscia verdastra d’erba spelacchiata al centro, tutto a gobbe e buche, colmo di fango giallastro, che infangava la Ford sino ai finestrini.
Superò un grosso spaventapasseri.
Inclinato sul lato destro, sghembo, che in un riflesso di Luna piena, durante la notte, avrebbe terrorizzato chiunque.
Arrivò al centro di uno spiazzo quasi circolare, sempre di terra battuta, e spense il motore.
Il finestrino era abbassato, nonostante il freddo pungente e Clyde Grant poteva sentire il fruscio delle foglie del mais, percosse dal vento.
Assomigliava ad una nenia sussurrata da una voce fiabesca, infantile, un poco misteriosa, quasi cupa.
Si accese la Morley e n’aspirò il gusto acre, con una copiosa tirata.
Il fumo si perse fuori del finestrino e si stiracchiò, annoiato, sul sedile.
I fari dell’auto, proiettavano una luce giallognola, quasi solida, contro la coltivazione.
Si stava bene, si respirava aria salubre, limpida, e lui, addetto alle assicurazioni nel ramo agricolo della compagnia dello stato, trovò la situazione assurda ed un poco comica.
Si massaggiò la nuca, ed udì lo scoppiettio nervoso del motorino.
Spense i fari.
Si affrettò a fumare la sigaretta, ed il suo umore andò cambiando.
Ora si sentiva eccitato e al tempo stesso tranquillo, mentre il vento calò d’intensità, sino a scemare del tutto.
Il borbottio del motorino divenne vicinissimo, sino a sbucare da uno dei filari di granturco, con la luce bianca del faro che tremolava nel buio solido della notte.
La ragazza posò un piede a terra e spense il motorino, sollevando il cavalletto.
La ruota posteriore fece un paio di giri nel vuoto, mentre lei, infilando le mani nelle tasche dei jeans, e sollevando appena le spalle, si dirigeva con andatura sonnolenta, verso la vettura.
Aveva degli splendidi capelli castano chiari, un seno prosperoso e delle gambe robuste, da contadina, nulla più che dell’ottimo fitness non
avrebbe trasformato in cosce da urlo.
Picchiettò sul finestrino con le chiavi di casa, tenute insieme da un portachiavi con il pupazzetto di Twetee.
Clyde spense la sigaretta nel posacenere e sorrise.
< ...e dai aprimi, che si gela qui fuori...>
Aprì la portiera e le fece cenno di sedersi accanto.
< Allora potevi metterti anche una felpa...vai in giro con la maglietta...>
Lei rise.
Il caldo dell’auto le fece tremare le braccia.
<...non dirmi che ti spiace...>
Clyde non rispose.
Le infilò la mano destra fra le cosce, avvertendo il calore della pelle pur sotto la robusta tela dei pantaloni.
Lei smise di ridere.
Barbara le baciò il collo, un bacio caldo e istintivo, per nulla sensuale, inesperta con i suoi sedici anni.
Clyde armeggiò con i tasti dell’autoradio, abbassando il volume al livello desiderato.
Le serrò le gote, baciandola bene, sentendo la sua lingua calda e sottile.
Un suono improvviso, come se qualcosa di grosso si muovesse fra le piante di mais, fece scostare Barbara quasi contro la portiera dell’auto.
<...che...hai paura ? >
Annuì.
< Andiamo....non fare la bambina...>
Scosse il capo.
< Non sei...tu ad avere sedici anni....sai che se mio padre mi trovasse qui...mi
spaccherebbe la testa...cos’era quel rumore..? >
Lui alzò le spalle.
< Non so...sei tu del Brenford...credo sia qualche animale fra il mais...tranquilla..>
Barbara smise di respirare.
Il fiotto di calore che dal pancino si diffondeva per il resto del corpo, era svanito.
Tremava come una foglia.
<...e se fosse...”cuore matto “ ? >
Ora anche Clyde smise di respirare.
Il rumore era più vicino, nitido, esattamente davanti a loro.
<...smettila....ti stai facendo la pipì addosso per nulla...>, disse, più per consolare se stesso che lei, dandole un buffetto sulla guancia.
“Cuore matto”...da quando era giunto a Brenford, circa un mese prima, non aveva
sentito parlare d’altro.
Accese i fari dell’auto.
< Che fai ? Spegni ! >, intimò Barbara.
< Se è un animale, scapperà, no ? >
Già...ma se non lo era ?
La Luna si nascose dietro una densa nuvola, e tutto piombò nel buio più assoluto.
<...era...era meglio il motel...>, bofonchiò lei.
< Te l’avevo detto...ma non hai voluto...>, aggiunse Grant.
Si morse le unghie, scompigliandosi i capelli.
< Vado a casa ! >
Clyde picchiò il pugno contro il volante, in uno scatto di nervosismo.
Il campo di mais sembrava deserto, immerso in un mondo a se, quasi fossero sulla Luna.
< Cazzo, Barbara ! Sono quindici giorni che ti filo attorno...e porca puttana...
non sono fatto di legno, no ? Mi pareva che lo volessi anche tu...>
Annuì, mentre gli occhi verdi, giravano in tutte le direzioni, sopratutto da dov’era venuto il rumore.
<..si..si che c’entra....ma non con quel rumore....porca Eva...se..Cly..se fosse
proprio lui ? >
Lui...ne parlavano come una leggenda, ormai.
Sette donne...e sette uomini...li aveva uccisi tutti lui, ormai non esistevano dubbi.
Fece scivolare le dita sulla leva della portiera.
<..se fosse proprio lui ? >
< Lo tiro sotto con la macchina...gli spappolo il cervello, a quel pazzo della malora...
giuro...>
Barbara si passò le dita bagnate di sudore sul tenue rossetto color rosso vivo, rubato all’emporio e nascosto alla madre, quel pomeriggio.
<...così lo sanno tutti che sono con te...>
Altro gesto di nervosismo.
< E dai, che palle ! Non si sente più nulla...no ? Era un animale, ed è scappato...>
Aprì la portiera.
< Si...ma magari è lui e ci guarda...ci osserva...ci vede...e si sta eccitando..per
saltarci addosso e....>
Aprì di scatto la portiera e schizzò fuori, inciampando fra gli arbusti dello spiazzo, circolare, perfettamente circolare.
Clyde uscì anch’egli dall’auto, urlando.
< Barbara...non fare la cretina...vieni qui ! >
Un suono secco, un gracchiare improvviso, cattivo.
Barbara scivolò a terra, nel medesimo istante in cui un grosso corvo si posò sul parabrezza della Ford.
Spiegò le ali nerissime ed emise un gracchiare ancor più rugoso.
< E questo che cazzo sarebbe ? >, bestemmiò Clyde.
Barbara era a terra, il sedere sodo fra gli arbusti ed il fango...adesso aveva voglia davvero di far pipì..
<...è lui...e luiiiiiii.....>, squittì.
< E smettila...! E’ solo uno dei vostri corvacci della malora...>
La fila di mais alle spalle di Clyde Grant si aprì, come un sipario antico e polveroso, ed una figura massiccia, avvolta in una cerata nera, si materializzò nel medesimo istante in cui la Luna usciva dalla nube.
Le luce lunare illuminò la lama affilata della falce, che si librò nell’aria, sibilando.
Barbara cercò di urlare, ma nessun suono le uscì dalla bocca, appena macchiata di rossetto rosso vivo.
Il colpo fu secco e preciso.
Il corvo ballonzolò sul parabrezza, poi spiccò un piccolo volo, posandosi sulla spalla di “cuore matto”.
Clyde Grant cadde in ginocchio, il cranio spaccato in due dalla lama della falce, il sangue che colava denso e solido, come parte del cervello, sul petto e le spalle.
<..bar..ba....ra...>, tossì.
Lo colpì con una pedata, facendolo cadere bocconi nel campo circolare, ed emise un tondo sordo, ovattato.
La falce si alzò di nuovo, proprio quando Barbara ebbe finalmente la forza di strillare:
<..noooooo...>
La falce recise il capo con durezza, staccando la testa dal corpo, per poi sollevarsi di nuovo.
La reggeva con due mani, nell’impugnatura di legno, facendole percorrere una traiettoria arcuata e sinuosa.
<...sono qui per te...signorina...>, ridacchiò.
Barbara si alzò di scatto, scartando fra il motorino e gli steli del mais, con il cuore in gola, l’adrenalina a mille.
Il colpo della lama le sfiorò le spalle, con un verso gutturale, e lei si morse le labbra, sino a farle sanguinare.
Il cielo divenne un improvviso, anomalo gioco di luci colorate.
Per un attimo “cuore matto” e Barbara si bloccarono impietriti dallo stupore.
Poi lui riprese a ridere, una risata grassa e malsana, da pazzo fottuto.
La falce la colpì al centro della schiena, spezzandole due costole, tre vertebre e facendola cadere riversa, in un mare di sangue.
Sgranò per l’ultima volta gli occhi verdi, mentre quella specie di gigante di grasso e muscoli, si scostava la cerata nerissima, dalla quale emergeva il riflesso metallico del coltello.
Il corvo, appollaiato alle sue spalle, spiegò le ali.
<...cuore mio....>, mormorò.
Le luci si disegnarono a corona nel cielo e la natura smise di respirare.
L’unico suono che si diffuse, fu quello delle urla di Barbara Jenkins.
Poi più nulla.

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" Il locale è triste e sta sempre qua ! "

" Dylan Dog è arrivato allo scontrino fiscale "

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MessaggioInviato: mar nov 04, 2014 11:59 am 
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E poi? Da te mi sarei aspettato uno stupro fra dolore e sangue! Non sei più quella di una volta, soggetto 4. Sceneggiatura 5. Disegni 3. Personaggi senz'anima, dialoghi già sentiti, Groucho non fa ridere...

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 Oggetto del messaggio: Re: Dylan Dog. Il cuore della terra.
MessaggioInviato: mar nov 04, 2014 12:04 pm 
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Aspè che siamo solo all'inizio...diciamo che l'idea è parecchio morbosetta...

E poi se non hai basi culturali, non commentare i miei scritti ! Tzè ! :-)

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 Oggetto del messaggio: Re: ...
MessaggioInviato: mar nov 04, 2014 12:18 pm 
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Pagiu ha scritto:
E poi? Da te mi sarei aspettato uno stupro fra dolore e sangue! Non sei più quella di una volta, soggetto 4. Sceneggiatura 5. Disegni 3. Personaggi senz'anima, dialoghi già sentiti, Groucho non fa ridere...

Però i disegni sono fantastici, 10 :D :D

Si scherza, non ho ancore neanche letto ;)

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Di solito ho da far cose più serie, costruir su macerie o mantenermi vivo.


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 Oggetto del messaggio: Re: Dylan Dog. Il cuore della terra.
MessaggioInviato: mar nov 04, 2014 1:12 pm 
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Dog, non ci sto capendo piu' niente, fra ritiri e ritorni improvvisi.
E' come quando salti qualche puntata di un telefilm, e ti ritrovi un personaggio che in toria era uscito di scena.. Solo che qui succede di continuo. :lol:
Per uno che si connette poco come me e' traumatico, ho bisogno di certezze.
Smettila e rimani, che me stai a far gira' la testa. :mrgreen:


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 Oggetto del messaggio: Re: Dylan Dog. Il cuore della terra.
MessaggioInviato: mer nov 05, 2014 7:14 am 
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In realtà Dogares ha lasciato il Forum, questa è Dogamy...

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 Oggetto del messaggio: Re: Dylan Dog. Il cuore della terra.
MessaggioInviato: ven nov 07, 2014 4:19 pm 
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Si prosegue....sebbene stia male parecchio..


( Presso Brendorf, due giorni dopo, Ore 12.05 Am )



Ora quel suono gli rimbomba nella testa, incessante.
Il suono delle sirene della polizia, dell’auto, dei lampeggianti blu e gialli, sempre più vicini.
Il fiato rotto, mentre piega gli steli del mais, sotto la corsa incessante, verso le grotte, a nord, proprio nel punto delle luci strane dell’ultima sera di “Cuore matto”...
Jackobs Tenner, ha il sudore che gli cola dal collo, madida la camicia a scacchi, la fronte e la cicatrice a forma di mezzaluna, sul lato destro del volto.
Poliziotti...tanti...
Dietro di lui.
Era iniziato tutto all’alba, poco dopo le 05.00.
Aveva sentito auto che si avvicinavano rombando e sollevando polvere e fango sul sentiero principale, quello che tagliava in due il campo di mais e portava diritto davanti all’uscio di casa sua.
Una casa cadente e logora, sinistra.
C’erano finestre chiuse da anni, che come occhi semi addormentati, fissavano chiunque si avvicinasse alla proprietà.
C’era un tetto crollato sul lato sud, dove comunque lui non abitava più da tanto tempo, dal quale filtravano acqua tutto l’anno e neve in inverno, conferendo all’abitazione un odore di muffa insopportabile.
Ma lui si adattava alle 4 stanze striminzite che costituivano casa sua dopo la morte dei genitori, senza troppi problemi.
Del resto la fattoria un tempo, era stata enorme e sarebbe stato tutto spazio sprecato per uno che viveva solo come Jackobs Tenner.
Era sempre stato solo, in fondo. Solo nell’animo prima di tutto.
Era grosso e mastodontico, dal viso segnato da una cicatrice ributtante, che gli era stata causata da un incidente accorso quando aveva 11 anni.
Pà sta affilando la falce, e l’aveva appoggiata ad un gancio ricurvo, che stava ancora giù nella stalla.
Lui era entrato senza dirgli nulla e l’aveva guardato armeggiare la cote con destrezza.
La falce era alta quanto lui.
Jackobs si era avvicinato e aveva preso ad accarezzarne il manico nodoso e solido, mentre la lama pareva luccicare sinistramente.
Un lampo aveva sventrato il cielo plumbeo e Jackobs si era spaventato, cadendo in avanti. E nella caduta, aveva trascinato con se l’attrezzo da lavoro.
La falce gli aveva affettato parte della guancia e cavato un occhio, che era rimasto penzolante in un mare di sangue.
Da allora era rimasto offeso in quella parte, praticamente cieco.
Fin da piccolo, grosso e mastodontico com’era, aveva sempre fatto paura agli altri coetanei. Ora con quella cicatrice, faceva davvero spavento.
Jackobs era stato un studente discreto.
Si applicava con perizia al disegno, era negato per la matematica, eccelleva, visto il fisico, per lo sport… Rugby soprattutto.
Ma, altro regalo della falce, dopo quello che suo padre aveva chiamato “casino fottuto”, dopo quello addio anche al rugby.
Quindi restava solo la fattoria...
La fattoria...il legame di sangue...con la terra...con il tutto...
Terra mia...cuore mio...cuore...vita...sangue...seme...
Seme di mais, di grano, di riso, seme di contadino accarezzato con mano gentile, arato con forza...bestemmiato e supplicato, protetto dalla pioggia incessante e dal sole cattivo, dal gelo che spacca la terra...protetto come un figlio...
Figliolo mio...
I cani avevano abbaiato rabbiosi, una volta scesi dal cellulare della polis.
Gli sbirri erano tesi e incazzati.
E allora lui era fuggito.
A rotta di collo. Sapeva che l’avevano incastrato.
Avrebbero trovato la sua dispensa…I suoi cuori no, quelli mai, ma bastava la dispensa perché finisse in galera.
Eppure lui voleva solo far parte della comunità…del senso delle cose. Nient’altro.
I suoni erano sempre più vicini.
Nessuna prigione...mai ! MAI !
La collina era di fronte, sentiva la pendenza aumentare. Lo rallentava, ma non l’avrebbe fermato. Le grotte erano fori irregolari, incastrati fra i sassi irti e bianchi della collina.
Il fiato si rompeva, il cuore batteva feroce…Ma non si sarebbe fermato.
Cuore…cuore di figlio…
Cuore di padre.
Papà che stava sulla soglia della fattoria, le mani nelle tasche larghe dei pantaloni di tela, da lavoro...
Jackobs, Jack per papà, non aveva mai visto il padre vestito altrimenti che per lavorare, a parte la funzione della domenica.
Aveva due paia di scarpe, una coppia di salopette, un cappello di paglia a tesa larga, guanti da lavoro e la schiena ingobbita, piegata dalla natura inesorabile.
Lo rammentava sempre in quella posizione, anche ora, senza una spiegazione logica, mentre sentiva i latrati dei cani, le luci, le urla di chi lo stava braccando come una bestia rognosa.
Papà stava sulla soglia, lo sguardo fisso verso il grande campo di mais, all’altezza dell’orizzonte, dove il sole tramontava rosso come un’arancia in estate.
<...figliolo....>
Lo sentiva arrivare, nonostante fosse mezzo sordo.
Jackobs aveva la falcata pesante, o forse il vecchio pà aveva il sesto senso..
Padre...perché penso a te adesso...?
Perchè ti ricordo...ora ? Ora che la mia missione è finita ?
Perdono, pà...
Gli aveva posato una delle mani callose sulla spalla, stringendo sino a fargli male.
<...mà ci ha lasciato, Jack...il suo cuore è lontano...è sotto un palmo di terra rossa..>
Lui aveva alzato lo sguardo ed era sbottato a piangere.
Forse anche il vecchio piangeva, ma era una lacrima sottile come un rigagnolo in secca, che si faceva strada fra le rughe del viso segnato dal vento, dalla sabbia, dal gelo e dal sole, a fatica.
<..adesso siamo soli, ometto...io e te...Abbiamo la fattoria da tirare avanti...>
Certo...tirala avanti la fattoria...che lei ti dà il pane, il lavoro...e che si prende,
in fondo ?
Solo la tua vita, la tua anima, le tue giornate, dall’alba al tramonto, sino al tuo, di tramonto..
E dopo due anni, pà, che un tempo era una quercia robusta e forte, si era schiantato.
Un ictus...un dolore al cervello..
E nonostante quelle luci fossero sempre più vicine, adesso, ed i suoni gli impedissero di respirare, quasi, riviveva quel momento.
Papà a letto, che lo fissava, che sgranava gli occhi giallognoli, e che farfugliava qualcosa, con la bocca ridotta ad una fessura tremolante e insicura.
Cosa aveva detto ? Lui n’era sicuro...La fattoria...occupati della fattoria...non lasciarla morire...mai...mai...mai...
Si voltò.
Buck, il suo corvo ammaestrato, lo seguiva con un volo sconnesso, nervoso.
<...non mi avrete mai ! >
Non fu un urlo, ma un ululato...una sorta di grugnito animale, con le braccia sollevate al cielo fottuto, di quella vita fottuta, di quella campagna bastarda, che aveva portato via il cuore di sua madre, di suo padre...
Ora gli agenti apparvero dietro ad un gruppo di steli di mais.
<...Jackobs...arrenditi...non hai vie di uscita ! Sei in arresto...!!! >
Ai piedi di Jackobs Tenner, un morbido tappeto di color grigio...dal profumo
penetrante.
Altri sbirri, dappertutto.
La falce...l’amata falce con la quale mieteva i propri cuori, le proprie vite...le proprie anime, era lontana, nella cantina...
Non potevano aver trovato la cantina..
La colpa era stata di Buck...di certo l’avevano beccato che si mangiucchiava qualche resto, magari gli occhi di quel cittadino dalla puzza sotto il naso.
Tirò fuori il coltello, agitandolo nel vuoto, facendolo sibilare come il verso di una donnola pronta a sbranare le galline.
<...affanculo ! Andate a farvi fottere, sbirri del cazzo !! >
Buck si posò su una pannocchia di mais, fissando gli uomini con occhi neri, senza pupille.
Jack si scagliò in avanti, con il suo peso mastodontico, possente come un toro.
Il primo colpo gli trapassò il petto, il secondo la spalla sinistra.
Barcollò, sino all’orlo del pozzo artesiano, scavato alla fine del campo, di fronte allo strapiombo che portava al terreno duro delle grotte.
Il terzo proiettile gli spaccò la testa in due, penetrando dalla zona occipitale destra e fuoriuscendo da quella frontale sinistra.
Il coltello...cadde...
Rotolò nel pozzo...e Jack...barcollò accanto ad esso.
<...cuore...cuori miei...>, urlò, animato da una rabbia bestiale, demoniaca.
Fece per rimettersi in piedi, alla stregua di un orso ferito che sollevi per l’ultima volta la massa un tempo imperiosa, poi scivolò sulla lastra del pozzo, scoperta e cadde all’interno.
Il suo urlo grottesco, bestiale, paralizzò i poliziotti per diversi minuti.
Poi qualcuno si sporse sino a sfiorare con le scarpe l’orlo del buco, guardando dentro nel pozzo oscuro, nero come la morte, tremando.
Un pozzo illegale, scavato e non segnalato, che tutti i contadini, però, conoscevano a memoria.
Anche la luce della torcia non illuminava che il principio di un buio senza fine.
Per un istante, qualcuno ebbe il timore che da quella fessura semi-circolare, uscisse la mano incallita di Jackobs “Cuore matto” Tenner, e che lo afferrasse per le caviglie, trascinandolo giù.
Invece, vide solo buio.

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 Oggetto del messaggio: Re: Dylan Dog. Il cuore della terra.
MessaggioInviato: mar nov 11, 2014 3:34 pm 
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Iscritto il: lun feb 28, 2011 3:20 pm
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Hy, si rinnova la pubblicazione. In sti giorni, a chi frega, son stata male parecchio. Cosa che mi ha bloccata sulla pittura meno sulla scrittura.


"
CAPITOLO UNO.


( Presso Bradford, Nord della Gran Bretagna,
Giovedì 12 Febbraio 2015, quattro anni dopo
Ore 01.08 Am )


Edith scese dal fuoristrada, prendendo una bella boccata d’aria.
Il cielo era un tappeto di stelle, e la Luna brillava come un diamante pallido.
Barcollò un poco, mentre la vista si annebbiava in modo distorto.
La campagna era scura e profonda, alla stregua di un budello senza fondo.
Il pozzo artesiano era stato coperto da una pesante lastra di acciaio, intorno alla quale erano cresciute alte erbacce spinose.
I cavalletti erano sormontati da luci di color giallo, che si accendevano e spegnavano ed intermittenza.
Questo le provocò una nausea anche più forte di quella che aveva sentito in auto.
Cristo, quanto aveva bevuto!
Almeno sei o sette Cuba libre, ed un Long Island.
Si sfiorò i capelli rossi, avvertendo il gelo attraverso le scarpe da tennis.
<...Edith....come va il buco ? >
< Benone..fa solo un fottuto male del cazzo !! >, gridò.
Stevens Sullivan, il suo ragazzo ufficiale da meno di una settimana, si sporse dal finestrino, cercando anch’egli sollievo dalla sbornia.
Sapeva che Edith beveva di brutto.
L’aveva conosciuta a Bredford, al pub del paese, e s’era ingrifato subito.
Edith era una bella pupa, capelli rosso vivo, seno della terza misura, gambe lunghe e culetto sodo...un vero portento.
Ma a Steve, era piaciuta per altri motivi:
Primo il modo nel quale beveva, vale a dire ingollando pinte di lager senza difficoltà ed affrontando i cocktail più forti con assoluta padronanza.
Poi c’erano anche la musica Heavy Metal, e i tatuaggi.
Lei aveva dei tatto che erano un portento.
Uno splendido drago colorato, che dal centro della schiena, scendeva sinuoso sino alle chiappe, assolutamente sode e dalla forma di due uova accostate strettamente.
Poi un teschio tatuato sulla caviglia destra, ed una spada sulla spalla sinistra.
In quei giorni, infine, si era decisa a marchiarsi a fondo, un pò come le mucche di pà, con un piercing alla lingua.
Cazzo, quella cosa lo mandava in visibilio.
Chissà come la muoveva, quella lingua...!
In quei pochi giorni in cui si era messo con lei, Edith non aveva potuto usarla, la lingua, proprio per via del piercing, che s’era fatta fare in città.
Lì era normale, per le fiche come lei, bucarsi la lingua.
Del resto, ognuno deve fare parte del gruppo...dell’appartenenza.
Non appena l’auto spense il motore, si udì, lieve ma distinto, il suono di un qualcosa di innaturale.
Come quello di una lamiera, un pezzo di ferro pesante, che scivolasse sul terreno argilloso del campo.
Ma chi poteva dire, fra i due, se era vero quello che stavano sentendo ?
Edith, si era appena appoggiata ad una robusta quercia, e stava vomitando anche l’anima.
Il piercing poteva forse darle problemi, con il vomito, ma che cazzo ci poteva fare ?
Il Long Island l’aveva stesa del tutto.
<...Steve....vieni fuori...>
Faceva un freddo pungente, ma secco.
L’atmosfera era percorsa da una densa elettricità statica, tanto che Steve aveva preso ben tre scosse, quella sera, guidando il Cherockee del padre.
<...arrivo...cocca...>
Rise.
< Caro Steve...te la do, stasera...ciucca come sono...te la meriti, bello.......>, pensò.
Altro rumore, questa volta molto più vicino.
La vecchia fattoria ed il campo di mais, erano state abbandonate sul finire dell’estate del 2011, quando il nuovo proprietario, era stato trovato morto in casa sua.
Una morte strana...strana davvero.
Aveva un...una sorta di buco al centro del petto...cosparso di una densa e molliccia sostanza grigio verdastra...
Comunque...adesso il posto tanto amato da “Cuore matto” era diventato il ritrovo per le coppiette del paese.
Edith aveva perso la verginità all’età di 15 anni.
Era stata una cosa straordinariamente rapida e squallida.
Si era baciata in modo umido e disgustoso con un brufoloso irlandese di 4 anni più grande, di cui aveva dimenticato anche il nome, e l’avevano fatto lì, su quella terra florida.
Avevano fatto sesso, quello da adulti, ed il suo fiotto di sangue l’era sceso dalle cosce, andando ad irrorare un dito di terra, e lei si era sempre domandata se quella cosa avesse una sorta di significato recondito.
Niente di poetico. Era pieno di insetti, formiche per lo più, che l’erano rimaste addosso per giorni.
Aveva temuto, per alcuni giorni, che quelle formiche fossero riuscite ad entrarle anche nel sesso. Sapeva che gli insetti a volte fanno di questi scherzi.
Lo aveva visto in televisione.
Per un paio di notti si era anche svegliata di soprassalto sicura di trovare delle formiche nel letto e fra le gambe.
Poi la cosa era stata dimenticata del tutto, man mano che i giorni passavano e la paura per quella eventualità, aveva ceduto il passo alla consapevolezza piena di esser diventata donna.
Vide barcollare Steve fuori dal mezzo, e sorrise.
Si tolse il giubbotto in pelle, ficcandoselo dietro le spalle.
Steve era buffo. La sua immagine si sfocava e si rimetteva a fuoco come attraverso l’obiettivo di un cattivo fotografo, ma era buffo così.
Rise.
<..sai Steve...ho proprio voglia, stasera...proprio tanta...>
Bofonchiava con tono da ubriaca.
Edith era prossima all’alcolismo, poiché beveva come una spugna dall’età di diciassette anni.
Non si faceva, qualche canna ma nulla di serio, ma beveva di brutto.
La birra era stata un’apripista per i super alcolici, e chissà quante volte aveva mandato a farsi fottere il reverendo Albert, che la vedeva rimettere l’anima a bordo della strada, la mattina presto.
Il padre di Edith lavorava come ispettore geologo per la contea, e rimaneva fuori casa quasi cinque giorni su sette. A volte sei se le cose si mettevano male.
Quando la Gran Bretagna fu scossa da una serie di alluvioni, nel 2004, lei non lo vide per quasi un mese intero.
Sua madre era insegnante alla scuola dei Briston, che distava da Brendford 20 miglia.
A volte si fermava con delle colleghe per diversi giorni durante la settimana, per risparmiare sul costo della benzina, e soprattutto quando c’erano gli scrutini ed il lavoro extra scolastico si accumulava.
Quindi Edith era cresciuta da una certa età in avanti, da sola.
Aveva sospettato, verso il 15 anni, che i suoi genitori non si amassero più e che rimanessero insieme solo per non turbare un ordine costituito, sebbene non ne avesse avuto alcuna conferma diretta. Mai sentiti litigare, mai sospettato di una scappatella o una storia da parte di uno dei due.
Però era un sospetto abbastanza palpabile, che non abbisognava di alcuna conferma per esser creduto del tutto.
Così, in quei lunghi e piovosi pomeriggi di noia della campagna inglese, in cui il tempo sembra cristallizzato e incapace di andare avanti come si dovrebbe, Edith aveva iniziato a bere qualche birra dal frigo di papà.
Tanto a casa non ci stava quasi mai nessuno e comunque anche se ci fosse stato suo padre, era troppo intento ad elaborare grafici, studiare rocce e minerali dai nomi difficili e dimenticabili.
La ciucca le era servita per vincere una sottile timidezza di fondo e aveva anche iniziato a farsi tatuare la pelle.
La musica heavy, Iron Maiden sopra tutto, le era sempre piaciuta e da quel famoso pomeriggio di sbronza, era diventata la colonna sonora della sua vita.
Adorava i testi feroci degli Iron, la violenza con cui la chitarra entrava nelle orecchie, i riferimenti blasfemi. La società era una struttura esile, di facciata come certe case nei film western, quelli americani, che dietro erano tenute su da assi di legno scricchiolanti e malferme.
La società, la famiglia, il matrimonio…tutte facciate di case fittizie, inesistenti.
Tanto valeva fottersene di quelle cose.
Steve sorrise, in modo ebete.
Era un ragazzo dinoccolato e magrissimo, a parte un accenno quasi tondo di pancia provocata dalla birra.
Per lui, sin da bambino, il mondo si era diviso in due grossolane, ma abbastanza nette dimensioni: la propria e quella esterna.
A Steve importava, naturalmente, solo della propria.
Tutto ciò che vi stava al di fuori, amici, donne, scuola, lavoro, ogni cosa, era insignificante.
Steve Sullivan era un ragazzo timido e insicuro, di intelligenza inferiore alla media, ma innocuo. Sebbene il suo interesse per il prossimo avrebbe potuto allertare qualche agente federale americano che intendesse tracciare il profilo di un possibile serial killer, egli era incapace di fare male a chiunque.
Aveva sempre preso schiaffi, pugni, scherzi feroci da parte degli “amici” di scuola, per tutta la sua vita.
Una volta, appena prima della fine dell’anno scolastico, lo trascinarono in un aula di ginnastica, naturalmente deserta, e gli appiccarono fuoco ai pantaloni con dell’alcool.
Steve non aveva naturalmente aperto bocca con i professori né con la segreteria e tanto meno con gli agenti della polizia di Brendford su chi fosse stato a provocargli ustioni di primo e anche di secondo grado su quasi tutte le gambe.
E non per una forma esagerata e rozza di onore e rispetto. Quanto perché intimamente convinto che a chiunque altro, nel resto del mondo che si snodava a perdifiato fuori dalle mura domestiche, non sarebbe importato poi molto di risolvere pienamente la faccenda. E forse, in quello specifico discorso, aveva anche una dose massiccia di ragione.
Tre dei suoi aguzzini, paradossalmente, presero a portargli rispetto e ammirazione, divenendo realmente suoi amici.
Il solo ritrovo che potevano conoscere e permettersi, era il pub, caldo, fumoso, e colmo di birre e musica anglosassone e metal.
Steve reggeva bene gli alcolici, al limite li sfogava con una pisciata accanto ad un albero, o nel caso più aggressivo, vomitando tutto al ciglio della strada.
Al pub, le prime apparizioni di Edith erano scivolate via senza lasciare traccia.
Solo verso il finire dell’estate e l’avvicinarsi cupo e minaccioso dell’inverno, Edith era…mutata. Aveva preso a vestirsi metal in modo pesante, il tattoo che prima appena si vedeva, era cresciuto e diventato dettagliato e colorato, la gonna era divenuta molto corta e jeans strappati. Anche sulle chiappe.
Così, una sera, una di quelle sere sempre uguali nei piccoli paesi della Gran Bretagna, quando fuori la nebbia copre il cielo come una coperta pesante e malsana, si era seduto accanto a lei, fissandole i capelli rossi e la bocca carnosa, per tanto, troppo tempo.
Edith O’Bredy ricambiava fugacemente, appena socchiudendo gli occhioni espressivi, assolutamente certa di averlo fra le mani come una pera succosa, cascata dalla pianta.
Si erano baciati totalmente ubriachi alla fine della serata. Un bacio tenero, insolitamente privo dell’uso della lingua.
Dopo due giorni lei scriveva il suo nome sul diario.
Steve ricevette un sms sul suo cellulare la sera di martedì. Edith gli comunicava che sarebbe andata in città, tornando entro pochi giorni, promettendogli una sorpresa.
Quando si erano rivisti, lei lo aveva abbracciato, stringendolo con forza e non appena si erano staccati, aveva fatto una lunga boccaccia ficcando la lingua di fuori.
Vi troneggiava una palla di acciaio grossa come un acino d’uva americana, ancora impastata di tintura di iodio.
Lui aveva riso e le aveva accarezzato i capelli.
< Mi voglio anestetizzare…>, aveva farfugliato.
E avevano quindi preso a bere di brutto, come liberandosi di ogni inibizione ad ogni sorsata di birra e ad ogni cocktail.
Poi erano barcollati fuori e lui l’aveva fatta salire in macchina, per proteggerla dal freddo umido di quella serata.
L’autoradio diffondeva musica Metal, altissima.
Non udirono che un fruscio.
Steve la spinse contro la quercia, sollevandole il maglione cucito dalle mani artritiche di mamma, e ne scoprì il seno morbido e sodo.
Si chinò, sussurrandole qualcosa d’osceno e Edith rise ancora.
Accarezzò i suoi capelli corvini, ed all’improvviso udì una vibrazione.
L’albero parve dondolare un poco, e qualche foglia si staccò, planando a terra in cerchi irregolari.
<..aspetta...hai sentito ? >, domandò lei, mentre Steve la morsicava con i baci, appena sopra i capezzoli.
Edith ebbe la netta impressione che il terreno franasse ai suoi pedi e che le radici della quercia si fossero spostate dalla sede naturale.
<..è un terremoto ? >
< Sei tu il mio terremoto, amore...>
La sollevò, prendendola per i fianchi.
Edith incrociò le gambe, serrandolo nella propria morsa, ridendo, ora convinta che fosse stato tutto un sogno.
Era l’alcool, che la faceva sognare così...senza dubbio.
Sentiva la sua erezione, dura e decisa, contro il proprio pube.
<..wow...sei proprio eccitato...vero ? >
Un nuovo tremorio, stavolta simile ad un risucchio d’acqua.
Edith trattenne a stento un grido, mentre Steve rotolò a terra scivolando.
Il terreno...gli mancò il terreno sotto ai piedi d’improvviso, come si fosse aperto un crepaccio.
Ma non era una normale fenditura.
Aveva l’aspetto di un imbuto conico, a cerchi concentrici, colmo di fango, nel quale i due ragazzi presero a scivolare senza nessuna possibilità d’appiglio.
Adesso Edith urlò con tutte le forze, quando, giunta alla fine dell’imbuto, a circa sette metri di profondità, in una sorta di conca molliccia, vide spuntare una
sagoma umanoide.
Era alta, massiccia, mastodontica. Emanava un puzzo di decomposizione e terra fresca.
Fra le mani qualcosa. Una falce, forse.
Steve era supino, tremante, impazzito dalla paura.
< …Cuori miei…>, gracchiò una voce orrenda, mostruosa, non umana.
La musica si perse nel cielo terso, mentre la spaccatura si richiudeva. "

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 Oggetto del messaggio: Re: Dylan Dog. Il cuore della terra.
MessaggioInviato: dom nov 30, 2014 3:21 pm 
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Parte domenicale.


CAPITOLO DUE.

( Cimitero di Bredford, , Nord della Gran Bretagna,
Mercoledì 25 Febbraio 2015, Ore 09.45 Am )



C’era un fitto muro di nebbia, quella mattina.
Padre Albert, il reverendo tanto caro alla povera Edith O’Bredy, stava al centro della fossa fresca, le mani strette fra loro con la Bibbia trattenuta con forza.
I paramenti della funzione lo proteggevano a stento dal freddo umido e feroce.
Ai suoi lati, sulla sua destra, i genitori della ragazza.
Il padre appariva simile ad un albero piegato da una qualche potente calamità naturale. Non del tutto crollato, ma mal messo, come quello che la polizia della città aveva rinvenuto quasi sradicato dove la terra era stata del tutto smossa.
Aveva un capello e tese larghe, calato sulla fronte, le spalle curve, e sembrava un vecchio di oltre sessant’anni, venti di più di quelli che la natura gli aveva dato.
La madre era staccata da lui di un paio di passi.
Era ritta e ferma, quasi non avvertisse nulla: né il freddo, né la nebbia…nulla.
Aveva gli occhi fissi verso la fossa, profonda e odorosa di terra umida.
Un corvo planò su un monumento, gracchiando in modo stridulo.
Era intervenuto pure il coroner della città. E si era sentito male.
Una cosa simile, in effetti, non l’aveva vista mai, in quasi trent’anni di professione.
I fatti erano stati straordinariamente rapidi.
Del resto l’auto del padre di Edith era ancora parcheggiata in modo sghembo su un lato del sentiero, quello che si staccava dalla via principale e portava alle fattorie e ai campi e alla boscaglia, con le luci accese e una portiera semi aperta.
Mitch Norton, agente di pattuglia, era infatti un tipo abitudinario.
Soleva perlustrare le viuzze e i campi al di fuori della strada asfaltata, quella ancora senza luci ai lati ma con le pietre miliari dotate di catarifrangente, dal giovedì al sabato sera. Il più delle volte raccattava qualche ragazzo chino a vomitare, o qualche ragazza spaesata e spettinata. Non che fosse un lavoro da Sherlock Holmes, ma in quelle piccole cose, egli si sentiva utile.
Il poliziotto scese dalla moto, una robusta Triumph dal motore cupo e pesante, e accendendo la torcia aveva intimato a chiunque ci fosse di uscire.
La pistola la teneva chiusa nella fondina.
Ciò che era accaduto con Jackobs Tenner, era stata solo un’anomalia.
Una terribile anomalia in un paese tranquillo, forse un poco bifolco, ma sostanzialmente tranquillo. Dio i pazzi e i geni li distribuisce in ogni anfratto di questo schifo di mondo, diceva sempre sua madre, quindi c’era d’aspettarsi ogni elemento e ogni carattere, ma la città di Brendford aveva già elargito il suo contributo di morte e dolore. Per almeno qualche secolo.
Vide delle orme di due persone, uomo e donna a giudicare dalla differente misura, che zigzagavano disordinate fin verso l’albero.
Si bloccò. L’albero, era come se solo ora l’avesse osservato.
Stava piegato da una parte, con delle radici sollevate che spuntavano dal terreno.
Come oscura creatura misteriosa.
Puntando bene la torcia, vide che tutta la terra attorno alla pianta, sembrava fosse stata arata di fresco.
Ma in modo…curioso. Descriveva un circolo leggermente conico.
Si avvicinò sino al bordo ed avvertì un tanfo tremendo.
Bloccò un conato di vomito con tutta la forza che le budella gli concessero.
E provò terrore, notando che la sua caviglia sinistra era quasi del tutto affondata nella terra, tanto molle da sembrare fango.
Barcollò all’indietro, non appena illuminò qualcosa che spuntava a malapena dal terreno, sulla sua sinistra.
Ora vomitò senza potersi contenere.
La faccia strappata dal teschio di Steve Sullivan era deforme e del tutto simile ad un foglio di carta velina impregnato di sangue, ma comunque riconoscibile.
Il campo fu chiuso e i nastri di sicurezza sistemati con cura.
Il terreno scavato da esperti. Scesero sino a quasi 7 metri, prima di trovare tutti i resti dei due poveri ragazzi.
Quelli che trovarono, sia chiaro.
Del corpo di Edith era rimasto molto poco. Il tattoo aveva fatto urlare come una demente la madre, non appena le foto le furono mostrare alla stazione di polizia ( il cadavere, o quello che rimaneva, era talmente ridotto a brandelli da esser infilato in vari sacchi neri e si preferì evitare di mostrarlo ai genitori per il riconoscimento ).
A Edith mancavano la testa, il cuore, la gamba sinistra, parte degli organi interni e i due seni. Era ridotta, disse qualcuno ( mai scoperto chi fosse stato.. ) ad “ una pannocchia bollita e mezza mangiucchiata..”
Steve Sullivan era, se fosse stato umanamente immaginabile, ridotto ancor peggio.
A parte la faccenda del viso, che il coroner aveva ritenuto strappato via a morsi, gli mancava tutta la cassa toracica. Chiunque fosse stato a massacrarlo così, aveva anche infierito sulla sua dignità di uomo, per dirla tutta, infilandogli un robusto ramo contorto dall’ano, sino a farlo uscire dalla bocca.
I genitali gli furono strappati e infilati tanto in profondità in gola da poter essere rimossi solo aprendogli l’esofago.
Era irriconoscibile pure per i genitori, che arrivarono insieme sostenendosi a vicenda con incredibile lucidità. Ma era banale capire che fosse lui. Era scomparso lo stesso giorno della sua ragazza, erano stati visti andar via insieme e per quanto fosse strampalato, Steve non sarebbe mai scomparso da casa per quasi un giorno senza che i suoi genitori, i suoi amici, qualcuno ne fosse a conoscenza.
Il DNA, alla fine, pose fine ai dubbi.
Mauriel Sullivan, sua madre, era seduta su un lato del letto, lo sguardo fisso verso la finestra che dava sul cortile della loro casa, in centro a Brendford, quando suo marito,
Norman, aveva aperto con lentezza infinita la porta della camera.
Dalla finestra si osservava la strada principale, con lo sfrecciare lento ma costante di auto immerse in un’atmosfera sonnacchiosa, tipica della campagna inglese.
La telefonata l’aveva sentita anche lei, aveva sentito l’apparecchio squillare per distruggere per sempre ciò che rimaneva del loro mondo, senza pietà.
Eppure sin quando lui non era salito per dirle l’esito dell’esame genetico, aveva sperato, supplicato, mendicato, pianto, agonizzato che così non fosse.
<…è lui….è…nostro figlio…>, aveva detto semplicemente Norman, con le parole tanto pesanti da risultare sassi sputati fuori dalla bocca con dolore, ribrezzo quasi.
Lei aveva tremato e non si era voltata.
Si erano seduti vicini, abbracciandosi le spalle e lei aveva avuto solo la forza di chiedere: <…perché ? Perché lui ? Era così…buono…>
Poi non aveva detto altro.
Per giorni.
Ora stavano a fianco degli altri genitori, appena un passo indietro, come per non entrare direttamente in quella intimità, e del resto nemmeno li conoscevano se non di vista, eppure come per un gioco crudele e malvagio, quell’orrore aveva deciso di farli
incontrare in quella occasione, muti, legati da un dolore assoluto, eterno, incontenibile. Quello di un genitore che sopravviva ai propri figli.
Steve era stato sepolto il giorno prima. Sebbene nessuno l’avesse chiesto, ai funerali del ragazzo parteciparono anche i genitori di Edith. C’era tutto il paese, ma era chiaro che quelle due famiglie si sarebbero trovate ovunque. In qualsiasi posto.
C’erano anche gli amici suoi, quelli che qualche anno prima gli avevano incendiato i pantaloni e che ora piangevano come vitelli, stringendosi e tremando.
Riposava accanto a quella buca aperta, che presto si sarebbe rinchiusa anch’essa per sempre, con la terra appena smossa, corone di fiori profumati che andavano a marcire in modo inesorabile, eppure era come se fosse in piedi, insieme alla sua famiglia e a quella O’ Bredy.
E in fondo c’era anche Edith, con i suoi capelli rossi, i suoi tattoo, la sua risata nervosa e la sua musica metal.
C’erano amici e gente appena salutata in un paese di 11.000 anime in fondo, lontanamente, tutte imparentate fra loro.
C’era tutto il mondo lontano, ( lo si sentiva nelle mattine linde e con il vento a favore, che sfrecciava sulla strada provinciale, intento a correre dietro alle sue esistenze caotiche, magari gettando uno sguardo assonnato alle balle di fieno, agli animali al pascolo, ai trattori sollevanti zolle o nuvole di fertilizzante ) accanto in quel dolore, eppure straniero, incomprensibile.
Il reverendo Albert osservava la bara scendere nella fossa, le palate di terra grassa e florida che andavano nascondendola al mondo lentamente, e cercò poi gli occhi dei quattro genitori. Per la prima volta si sentì privo di qualsiasi discorso religioso da fare.
La madre di Edith era immobile, lontana un paio di passi dal marito ma era come se fosse sulla Luna.
Benedì la fossa, ed il chierichetto che gli portò via i paramenti sacri, sbottò a piangere come una fontanella.
Lui si alzò il bavero del cappotto, avvicinandosi ai genitori.
< Vi sono vicino, lo sapete, figlioli…>
Avrebbe voluto dire e fare altro, ma il silenzio degli O’Bredy era troppo spesso e profondo perché le parole servissero a qualcosa.

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