Al netto dei vari vaneggiamenti assolutistici di qualcuno, ecco un mio pensiero su come si potrebbe rilanciare la testata. Ovviamente è una MIA idea, fondata su MIE convinzioni e MIE conoscenze dettate da tre aspetti fondamentali: 1. Seguo Dylan Dog dal 1992 (e ovviamente ho letto tutto quello che c'era da leggere, compreso i 6 anni precedente alla mia prima lettura del personaggio) 2. Sono stato edicolante da che avevo memoria fino al 2016 e mi dilettavo a osservare gli acquirenti delle nuvole parlanti 3. Sono un professore della Secondaria dal 2015 e insomma... più o meno ho avuto a che fare nel tempo con almeno un migliaio di adolescenti. A questi aspetti, va da se, si aggiungono le informazioni che carpisco qua e la tra giornali, web e confronti. Quindi, giusto per ripetermi: sono MIE elucubrazioni che lasciano il tempo che trovano, quindi stikazzi chi è totalmente in disaccordo. Lo ignorerò perché i forum (o qualunque dibattito) non sono fatti per convincere gli altri del proprio pensiero ma, paradossalmente, per rivedere il proprio pensiero alla luce di osservazioni coerenti, intelligenti e non certo supponenti. Quindi, mi solleticherebbe maggiormente un eventuale confronto costruttivo sui miei vaneggiamenti e non mantra che leggo ormai da qualche tempo.
Per come la vedo io, bisogna partire da un presupposto fondamentale che molti - Recchioni in primis - sembrano a volte dimenticare: siamo in Italia. Ebbene si, purtroppo è così. Viviamo in Italia e Dylan Dog è un fumetto italiano, per il mercato italiano, letto da italiani. Pochi cazzi! Come avviene negli altri campi artistici, c'è una sorta di esterofilia che però costantemente si scontra con la forte tradizione che caratterizza questo Paese. Tradotto in altri termini: si grida ai capolavori assoluti di marca americana (comics) o marca giapponese (manga) ma fondamentalmente la gran parte della popolazione italiana legge Tex, Dylan Dog, Diabolik e Topolino (quest'ultimo originario americano ma la produzione del settimanale è quasi tutta di casa nostra). Con questa premessa che voglio dire? (ritornando a Recchioni o a qualche cieco) Che è profondamente sbagliato trarre conclusioni partendo da determinati successi esteri, pensando che un modello narrativo valido in altri paesi si adatti perfettamente a delle serialità pluridecennali italiche o alla richiesta MEDIA italiana delle storie che si vogliono leggere. Quelli esteri sono si dei successi, ma oltre - ovviamente - la qualità di alcune storie, sono figlie anche di altri fattori che sono, in primis, la lettura delle effettive vendite che, numeri alla mano, sono successi relativi e comunque ciò che arriva qua è sempre una parte della sconfinata produzione nippo-coreana e americana (quindi c'è già alla base una forma di selezione). In secundis perché molti di questi "fenomeni" editoriali sono spinti soprattutto da film, serie tv, cartoni e promozioni online ben studiate e in mano a chi il proprio mestiere lo sa fare. Qua casca il primo asino. La Bonelli difetta sotto questo aspetto. Non c'è un minimo di elemento trascinatore negli altri media. E a quando a quando la SBE si cimenta a metterne su uno, ti prende il personaggio sicuramente meno iconico rispetto ad altri della propria scuderia (si, chiaramente mi riferisco a Dampyr). Se passiamo poi ai cartoni animati, ancora peggio. Non tanto nella scelta di Dragonero, quanto piuttosto per come questo viene reso. Il cartone non diventa un veicolo del fumetto che seppur edulcorato affronta in modo semplificato le tematiche adulte della serie che esce in edicola, quanto piuttosto una narrazione parallela specificatamente pensata per bimbi fin dai primi soggetti che poi si traduce in storie ridicole e dallo scarso appeal anche per un seienne. Insomma, era molto più forte il reboot di DuckTales (quello si, costruito sui fumetti di Barks e Don Rosa) piuttosto che una qualsiasi serie di cartoni italiana tratta da un fumetto di casa nostra. Ma questa è una politica - profondamente sbagliata - della Casa Editrice che mentre spende milioni per il film di Dampyr, sgrana gli occhi dinanzi al ritrovato morboso interesse verso Diabolik spinto - quello si - dalla trilogia dei Manetti bros. (e questo al netto della qualità intrinseca dei film in quanto prodotti cinematografici). La Bonelli, se doveva spendere milioni per film o serie TV, doveva innanzitutto puntare sui cavalli di razza (o comunque ben noti) della sua scuderia. Non puoi ancora tergiversare in particolare su Tex e Dylan Dog che per un motivo o per l'altro sono noti dai ragazzini di 12 anni fino ai novantenni. E si badi bene: NOTI non LETTI.
Andiamo al secondo asino che casca, anche se a metà. La promozione online. Negli ultimi tempi - seppur timidamente - girano più notizie sui personaggi bonelliani. E Dylan Dog sotto sotto, non tanto negli ultimi mesi ma sicuramente nell'ultimo lustro, ha fatto la parte del leone (e qua bisogna ovviamente darne merito a Recchioni). Il problema però è che nel mondo moderno iper scafato, non puoi promuovere rivoluzioni per poi propinare schifezze senza né capo e né coda, prive di mordente e di una banalità sconcertante al pari di una performance del cantattucolo di turno che vuole fare il rivoluzionario ma nella sostanza fa ciò che chiede l'attuale e imperante politically correct. Perché tempo due albi... pardon... 20 pagine dell'albo che acquisti per curiosità indotta dal web, ed ecco che lo usi per decorare l'alberello di natale dopo aver appallottolato i fogli e tinti di rosso (esperienza purtroppo personale con una mia classe e proprio con un Dylan Dog... "Jenny" per essere più precisi). Nel velocissimo e iper scafato mondo moderno, se tu prometti un petardo, devi presentarti con una bomba. E se promuovi una bomba, devi far leggere un ordigno nucleare. In tali modi fidelizzi i lettori.
Passiamo al terzo asino che casca. La qualità delle storie. Beh... è profondamente bassa. Diciamo scarsa. Se ai tempi di Gualdoni leggevi i gialletti insulsi ma ti ritrovavi comunque i caratteri sbiaditi di Dylan Dog, nell'ultima decade leggi banalità biografiche di un personaggio che non somiglia manco lontanamente a Dylan Dog. Chi escrive oggi Dylan Dog non ha la minima idea di come si scrive un simile personaggio. E spesso non ce l'hanno neanche i lettori neofiti che - giustamente - si affezionano al personaggio attuale (anche se mi chiedo come può accadere una roba simile) e non hanno idea di cosa fosse Dylan Dog 30 anni fa e giustamente, quando lo leggono, trovano un personaggio nuovo, magari non nelle proprie corde o rientrante nei gusti personali. Ma il problema non è ovviamente il Dylan Dog di 30 anni fa ma quello attuale che - essendo scritto dopo e portandone il nome - ha l'evidente difetto di allontanarsene totalmente dalla poetica narrativa. Va da se che l'Italia è piena di ottimi e vulcanici sceneggiatori ma se ci si ostina a riempire i mesi con la stessa quindicina di autori (spesso poco apprezzati, lontani dal mondo di Dylan Dog e che trasmettono più l'impressione che scrivano per timbrare il cartellino piuttosto che raccontare qualcosa), supervisionati con la mano sinistra tra un post e l'altro sui social e mentre la mano destra scrive tutt'altro, ecco che la qualità crolla.
Procediamo col quarto asino che casca. Il tipo di narrazione - e qui mi riaggancio con la premessa sull'esterofilità - deve essere adatto al gusto italiano. Se si analizzano le produzioni (di libri, fumetti, serie TV) di successo in casa nostra (al netto della qualità), risulta evidente che non vi è una narrazione serrata (ovviamente ad eccezione di micro serie che nascono con l'intento di raccontare una storia ben definita in tot puntate). La fruizione seriale dell'italiano, paradossalmente, è occasionale. Non seriale. Ma è il successo della serialità italiana. Le trame orizzontali sono blande, spesso insignificanti. Lo capì Sclavi nell'86 e lo vediamo tutt'oggi. Si puà usufruire di un libro (o un episodio) di Montalbano come "La danza del gabbiano" senza necessariamente passare dal primo libro (La forma dell'acqua) o dal primo episodio per la TV (Il ladro di merendine). Posso comprare l'ultimo Diabolik senza avere la necessità di conoscere "Il re del terrore" del 1962. Posso vedermi un qualunque episodio di Don Matteo della decima stagione senza sorbirmi i precedenti 20 anni di produzioni. E così via... da sempre il modus narrativo seriale italiano si muove in tal modo. Perché fondamentalmente è così che lo vuole l'italiano medio. E di certo c'è che in ogni caso se una serie (qualsiasi sia il canale comunicativo) nasce e si struttura in un certo modo, non può certo "modificarsi". Verrebbe snaturata con il risultato che viene a perdersi l'interesse del fruitore, sia che si parli di una narrazione orizzontale blanda, sia se si tratta di una serie con una narrazione concitata, serrata. Insomma, se improvvisamente mi fanno - ad esempio - "The Boys" con storie autoconclusive che non aggiungono nulla di che, dopo 8 episodi, su quanto accade tra i Boys e la Vought International... beh... un po' mi cagherebbe la minchia e non andrei avanti con la serie. Medesimo discorso con Dylan Dog: se per decenni ho fruito delle sue storie che iniziavano e si conludevano lì, senza avere necessariamente il bisogno di comprare il numero successivo o quello previsto dopo mesi o anni per sapere come la cosa si evolve, in tal modo deve continuare. Ma non perché uno è matusalemme o altre minchiate del genere scritte tanto per insultare o far passare per degli idioti i lettori, quanto piuttosto perché l'universo di Dylan Dog NON è stato pensato, progettato, costruito, strutturato e pubblicato per una narrazione serrata. Non vi sono i personaggi adatti (né come tipologia, né come numero), non vi è una genesi aprioristica del protagonista ben chiara, non c'è una contrapposizione forte e variegata tra le parti che giustifichi una narrazione serrata. E nel mondo di Dylan non la puoi calare di botto, senza alcun senso. Soprattutto se non si è il creatore del personaggio, nonché il creatore in un momento della propria vita contraddistinto dall'ispirazione. Cioè se Enoch e Vietti decidono improvvisamente di fermarsi con la serialità bonelliana per passare a una serialità per stagioni in Dragonero, è lecito perché non lo stanno facendo a 25 anni dalla nascita del personaggio e comunque ci si stanno cimentando in un momento altamente creativo della propria carriera di fumettisti. Ma di certo non lo può fare Recchioni in una serie dell'86 di Sclavi. E in ogni caso non ne ha mostrato le capacità, sotto molteplici aspetti.
Concludiamo col quinto asino che casca. La sceneggiatura e come questa viene messa in scena. Qua apriamo un tasto dolente. Il primo problema di Dylan Dog è stata questa sorta di auto censura che prima ha introdotto Sergio Bonelli per poi passare in modo più o meno conscio ai vari autori - compreso Sclavi - che di fatto hanno iniziato a limitarsi. Il fascino di Dylan Dog, quel suo essere colto e popolare allo stesso tempo, era figlio di una crasi tra simili concezioni e strutturazioni del fumetto. Cioè potevi passare dalle masturbazioni pirandelliane, alle battute idiote nel giro di poche pagine, così come dalle teorie freudiane ad aghi infilzati negli occhi, o ancora passaggi da Poe con viste su tette e culi. Dylan era tutto questo. Un insieme di raffinatezza e grossolanità. Se levi uno di questi aspetti, perdi un animo del personaggio, nonché della serie. E ovviamente una parte di lettori. L'italiano - tornando sempre alla premessa - è morboso. Non puoi levargli l'eros e lo splatter. Ma allo stesso tempo non puoi levargli la citazione colta, la narrazione sorprendente. E nel paese dei mille problemi e della ricerca forsennata nello sdrammatizzare, non puoi levare l'ironia, il sarcasmo, la semplice comicità pura e a volte demenziale. Il successo di Dylan era tutto questo insieme. Non una parte. Non è che se uno oggi mi scrive: "a me lo splatter neanche piaceva" significa che è stata la mossa giusta fatta dalla casa editrice. Ma Dylan Dog nacque in un certo modo e il successo che ne ha decretato la miticità nel fumetto seriale italiano non è certo dovuto ai primi dieci confusi numeri o al successivo periodo in cui Sclavi già aveva guai seri di salute (corrispondente più o meno dal numero 85 in poi), quanto piuttosto a quella settantina di numeri che hanno forgiato in un certo modo la serie sotto i suoi molteplici aspetti narrativi, che ora accontentavano il palato fine così come quello boccacesco.
Ecco... dopo questa strage di asini, più o meno è chiaro qual è il pensiero per il rilancio. MIO e solo MIO. Niente di trascendentale ma solo alcuni punti ben chiari da seguire (ovviamente al netto che un altro Sclavi è impossibile averlo): - Storie autoconclusive; - Semplicità di base nella trama (o per lo meno nella maggior parte delle trame) per focalizzarsi sulla strutturazione dei personaggi; - Cura nel comporre soggetti e sceneggiature; - Citazionismo sensato; - Promozione online a pillole e ossessiva; - Una serie TV in stile The Boys: senza censure ma anzi schiacciando l'acceleratore, quindi rendendola vietata ai minori; - Ritorno serrato - quello si - all'ironia, allo splatter e all'erotismo (più o meno velato); - Scouting fra giovani autori non affermatisi o se sono già noti, che non lo siano per produzioni lontane dallo spirito dylanato; - Osservazione delle reazioni dei lettori ma non per realizzare pseudo fan service*; - Riduzione della produzione per confezionare al meglio il prodotto; - Una supervisione meticolosa e immersiva dei curatori (perché penso che ce ne vogliano più di uno); - Diversificare - e lì si, sperimentare - le uscite extra (magari inventandosene una proprio forte sotto tutti i punti di vista).
Sulla reazione dei lettori (*) mi riferisco soprattutto alla strutturazione di un mondo Dylaniano quello si, che nel tempo, possa essere strutturato per una narrazione serrata di tot numeri. Se per esempio c'è una poliziotta come Carter di "Destinato alla terra" che ha fatto tanta breccia all'epoca nei lettori, perché inventarsi dal nulla Rania? E se c'era già un Gorman di "Anime prigioniere" che tanto intrigò i lettori, perché creare Carpenter? Insomma, attraverso delle indagini, capire cosa piace ai lettori. Per esempio, Barks invento Paperon de Paperoni solo come espediente narrativo nella storia "Il Natale di Paperino sul Monte Orso" ma la reazione dei lettori fece si che il buon Karl riprendesse il personaggio in storie successive sviluppandolo a tal punto di diventare uno dei comprimari imprescindibili delle storie Disney ambientate e Paperopoli e dintorni. E all'epoca neanche c'era internet per saggiare subito ciò che piaceva o meno ai lettori. Questo devono tornare a fare alla Bonelli. Non ebetarsi degli allocchi che scrivono costantemente "bravi", "capolavoro", etc... ma capire le critiche (positive e negative, ma soprattutto argomentate) e cosa veramente fa breccia nel gusto dei lettori.
Ecco... diciamo che questa è la mia visione per il rilancio. Sempre MIA e solo MIA. Magari poi qualche altra cosa mi verrà in mente e casomai l'aggiungo.
_________________ "Sono gli anni, i mostri ... gli anni che passano ... "
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