Come spesso accade col Manfredi dylaniano, a un ottimo spunto di partenza (pochi animali ispirano reazioni di paura/repulsione così diffuse e viscerali come i topi, e Siniscalchi è decisamente efficace nell'evocarle) fa seguito uno sviluppo non del tutto soddisfacente. Rispetto a "I giorni dell'incubo" e "La porta dell'inferno", se non altro, la verbosità è tenuta sotto controllo, lasciando più spazio all'azione e rendendo la lettura comunque scorrevole. Anche Dylan
in bianco e un Bloch in(cavolato) nero, raramente così fumantino, sono tratti comuni alla maggior parte delle storie dell'autore.
Lo scontro ideologico/estetico tra topi e ratti sul quale si basa la soluzione del caso è talmente bizzarro che l'idea, suggerita da più di un commentatore, di leggervi in filigrana una qualche metafora sociale, finisce per contrasto col risultare quasi logica. Metafora di cosa? Il passato dell'autore suggerisce con forza una lettura politica, anche se di orientamento ambiguo: l'invito sloganistico a "tornare nelle fogne", tuttora piuttosto gettonato nei cortei, fa pensare che Manfredi volesse contrapporre la destra "presentabile", istituzionale (i topi), e quella più estrema, brutta sporca e cattiva (i ratti) -contrapposizione che, in ultima analisi, sarebbe solo di facciata (il contesto storico aiuta: l'anno precedente, con la vittoria di Berlusconi, per la prima volta era andato al potere un partito non solo dichiaratamente di destra, ma anche post-fascista).
Ma è anche possibile che l'occhio e il cuore dell'autore fossero rivolti alla "sua" sinistra: e dunque da una parte avremmo la sinistra "presentabile", con ambizioni di governo, dall'aspetto così innocuo e accattivante da suscitare le simpatie anche di quelli che (storicamente) sarebbero i suoi avversari, vale a dire le classi più agiate (vedi, appunto, l'uso del topo come status symbol), e dall'altra la sinistra radicale/extraparlamentare/ortodossa, quella insomma meno urbanizzata e più "selvaggia" -e dunque il tutto sarebbe una metafora della perenne litigiosità della sinistra, tema che a distanza di tempo rimane attualissimo.
Il problema, in ogni caso, non sono le inclinazioni ideologiche dell'autore, più che evidenti del resto nel modo in cui viene rappresentato l'esercito (mentre la morte karmica dello scienziato che ha "superato i limiti", virando verso l'eugenetica, è assolutamente congruente con la storia della testata: potremmo dirla chiaverottiana, mentre l'enfasi sull'ottusità delle gerarchie militari è -anche- decisamente sclaviana).
Mi lasciano decisamente più perplessi alcuni snodi narrativi poco plausibili, a partire dalla ragione per cui Judy dà a Dylan il numero di Maxey: la storia del trauma è abbastanza debole (nel finale la vediamo far fronte a un'invasione apocalittica di ratti senza finire in coma), e la visita di Dylan sembra solo uno stratagemma per consentire a Maxey di spiegare la querelle topesca.
Ma il problema principale è un altro: alla fine scopriamo che quelli che sembravano ratti erano in realtà topi geneticamente modificati. Va bene, ma allora com'è che perfino "il migliore esperto di topi sulla piazza" (come lo definisce Bloch) li scambia per ratti, benché di una specie ancora ignota? E soprattutto: com'è possibile che gli esperimenti di Maxey abbiano dato quei risultati? Sarebbe un po' come far incrociare per diverse generazioni dei Dobermann, e ottenere qualcosa che sembra un levriero... Per di più, l'idea che i topi attacchino esclusivamente l'uomo perché hanno "assaggiato" il nostro sangue è un cliché orrifico del quale si sarebbe potuto fare tranquillamente a meno.