Forse per il maggior impegno che inizia a essergli richiesto, Chiaverotti qui si trova per la prima volta un po' in affanno, e si rifugia non in uno ma in ben due classici del genere, "L'esorcista" di Friedkin e "Inferno" di Argento. Ma l'angoscia visionaria di quei due capolavori non riesce a tradursi sulla pagina, e certamente non solo per lo stile troppo leggero di Montanari & Grassani (che, anzi, nelle scene del manicomio non sfigurano): ciò che risuona maggiormente in me, oggi come allora, è l'incipit
en plein air, con una bella descrizione dei turbamenti e delle sensazioni oscure legate all'adolescenza, mischiate a una precoce nostalgia per le persone che finiranno per
scomparire dalla nostra vita.
Per il resto Chiaverotti viaggia al risparmio, infilandoci l'ennesima filastrocca sulla Morte, ammazzando un altro cane (come in "Scritto con il sangue" -e meno male che è un animalista!
), recuperando la location di Harlech e il Castevet de "Gli inquilini arcani", e citando quasi letteralmente, dal punto di vista visivo, la scena di "Vivono tra noi" in cui Vera veniva uccisa con la sua stessa arma (qui c'è un coltello elettrico in luogo di una spada, perché stiamo pur sempre parlando di Chiaverotti
). Non troppe incongruenze, mi pare, anche se l'indizio decisivo è ottenuto in maniera piuttosto implausibile (perché nella cartella ospedaliera di Pam ci dovrebbero essere gli esiti di un esame della madre?).
Tutto sommato mi pare che il doppio binario razionale/soprannaturale regga, anche se al solito è difficile far combaciare intenzioni e azioni del "cattivo": non mi è chiaro perché la Regina delle Tenebre si limiti a impossessarsi del corpo di Pam invece di ammazzarla subito, cosa che si decide a (provare a) fare solo nel finale, così come mi sfugge l'utilità della sua capacità di prendere possesso di un cadavere, come vediamo nel controfinale.